Un altro calcio è possibile?

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Alle scuole elementari il 70% dei bambini gioca ancora a calcio: non lo fa quasi mai in piazza, in un oratorio, ma in contesti privati dove si pagano rette anche salate.

Prima della pandemia da Covid 19 le spese medie erano intorno ai 500 euro all’anno.

I bambini, una volta cresciuti, in seconda-terza media, abbandonano questo sport.

Il calcio di oggi non piace alle giovani generazioni perché, ad esempio, quello che vedono alla tv , e che dovrebbe essere un modello, dovrebbe avere una forza attrativa, è noioso e dà poche emozioni.

Non c’è più gioia nè semplicità nei gesti con il pallone: i club professionistici, in Italia ma non solo, sono sull’orlo della bancarotta finanziaria.

In serie A nella stagione 2019-20 le società nel loro complesso lamentano perdite per 770 milioni di euro, una voragine finanziaria che in tempo di coronavirus, appare difficilmente gestibile, ad esempio chiedendo aiuti allo Stato.

Anche se, è bene ricordarlo per non scivolare nella demagogia, negli ultimi 11 anni la contribuzione del calcio professionistico sia stata di 11.4 miliardi di euro. Per  un  euro investito nel calcio il Governo ha ottenuto un ritorno di 15.2 euro fiscale e previdenziale.

I club professionistici in Italia, 5 miliardi di euro di perdite negli ultimi 20 anni, pagano gestioni scellerate e spesso caratterizzate da artifizi contabili: se fossero normali aziende tante avrebbero portato i libri in tribunale.

In questa stagione, che sarà presumibilmente tutta a porte chiuse, si stima una perdita ulteriore di 300 milioni di euro a cui va sommato un -40% di risorse derivanti dagli sponsor.

Le società, che sembrano sempre di più alieni che ballano sul Titanic, cercano di puntare su globalizzazione e commercializzazione ma la passione non è un bene di consumo che si vende e che si compra.

Lo dimostrano, ad esempio, le orribili maglie, con colori e grafiche improbabili, che si tenta di mettere sul mercato ogni anno, cercando di “fare un po’ di cassa”.

All’amo abboccano in pochi, per fortuna. La stragrande maggioranza degli appassionati, o a questo punto ex appassionati, infatti ha un rifiuto quasi epidermico-viscerale per questi azzardi che vanno contro la storia ed il senso estetico.

Anche le partite a porte chiuse, dopo un entusiasmo di qualche settimana per la lunga sosta primaverile, sono viste da poche persone sui canali  a pagamento.

Assomigliano, queste partite, agli incontri di allenamento del giovedì: ritmo basso, errori marchiani dei giocatori in campo sottolineati dalle urla degli allenatori che rimbombano in un silenzi0 spettrale ed un pò angosciante.

Già prima del lockdown le presenze allo stadio, soprattutto in Italia, avevano fatto registrare un sensibile calo fra le fasce d’età giovanili: è logico aspettarsi che quando si riapriranno i tornelli, magari dopo una “fiammata iniziale”, la tendenza sarà confermata.

Secondo una ricerca europea i ragazzi fra i 16 e i 24 anni non tifano più, almeno come erano abituati a farlo i loro genitori o i loro nonni, che spesso coltivavano questa passione anche giocando.

Il 40% dei ragazzi dice tout court che “non ha più interesse” per il calcio, gli altri che ritengono una partita di 90 minuti estremamente lunga, spesso noiosa, e che preferiscono guardare gli highlights smanettando sugli smartphone alla ricerca di frammenti di emozioni o un video divertente postato sui social.

Più che tifosi e praticanti sono diventati followers.

Si aprirebbe così per un ente di promozione sportiva come il CSI una prateria di possibilità per provare ad intercettare quel mondo di giovani che dal calcio, che resta bellissimo, si sono allontanati per vari motivi.

Lo potremmo fare, quando le limitazioni epidemiologiche ce lo consentiranno di nuovo, mettendo in campo la nostra storia: dal 1946 è fatta di testimonianza, aggregazione, proposta educativa, inclusione ed un giusto agonismo, senza esasperazione.

 


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